Che cos’è il voto a scuola?

Dare un voto, riassumere in un numero le competenze dei ragazzi, i loro traguardi, i loro miglioramenti o le cadute (e le motivazioni di tali momenti di stanchezza). Che cosa significa per un docente compendiare e sintetizzare un mare di elementi in un numero? Andrea Martina, scrittore, sceneggiatore, autore teatrale e insegnante di Lettere alla scuola secondaria di primo grado “L. A. Muratori” di Vignola mette per iscritto i propri pensieri e le proprie difficoltà. 

Professori, diteci la vostra. Se volete partecipare al dibattito sul “voto a scuola”, scrivete a smiglio@class.it. I vostri interventi saranno pubblicati su Campus Magazine.

 

Che cos’è il voto secondo me?
Ho chiesto ai miei studenti di scrivere attorno a questa domanda qualche riga per il fine settimana e sinceramente non so cosa aspettarmi. Ho provato nei primi giorni di scuola a dire frasi come “per me non siete un numero”, “i voti vanno e vengono”, “pensate a capire gli errori che fate invece di preoccuparvi della media”.
Tutte frasi che oggi, da professore, hanno un senso molto diverso rispetto a quando ero studente.
Sentirsi valutato è tutta un’altra musica rispetto a dover valutare.
E credo che questo sia un primo passo per capire la difficoltà che sento, passato dall’altra parte della cattedra, nel comunicare a un mio studente un voto che potrebbe non piacergli e vedere che, mentre gli parlo, i suoi occhi sono fissi su quel numero.
Mi starà ascoltando? Quali sono i suoi pensieri? Magari starà pensando a cosa dire ai suoi genitori, alle uscite a cui dovrà rinunciare il prossimo fine settimana perché dovrà studiare, al fatto che quel voto gli ha rovinato una giornata che sembrava essere partita bene, al confronto che fa con i voti dei suoi compagni.
Non mi ascolta. Guarda quel voto e si sente quel voto.
Più di una volta ho avuto la tentazione di ritoccare il voto con la mia penna rossa (a proposito: questa cosa della penna rossa che corregge gli errori quasi quasi la tolgo e passo al blu o al nero) magari aggiungendo un mezzo voto d’incoraggiamento. Eppure sento che potrebbe essere una presa in giro. Dispiacere e delusione fanno parte di noi. Dobbiamo imparare a sentirli, a reagire, quindi niente mezzo punto in più
Dare i voti, per me, sta diventando un peso. Me ne rendo conto. Mi viene molto più spontaneo sostenere quattro o cinque ore di lezione, cercare gli agganci che potrebbero aiutare un argomento a essere più vicino ai ragazzi, sentire le loro domande per capire meglio il loro mondo. Ma con i voti scopro il lato meno simpatico della scuola. Come se quei numeri che scrivo con la maledetta penna rossa creassero una specie di distanza, di freddezza.
La scuola mi obbliga a mettere voti. Me lo ripeto ogni volta che sono tentato a correggere i temi e sostituire i numeri con frasi come “bene così!”, “sei maturato rispetto all’ultima volta”, “occhio a questi errori che ti porti per strada”, “sei stato una sorpresa”, “bello questo passaggio”, “coraggio, datti una svegliata”, “cosa c’è che non va?”.
Ma non posso. Nel giro di qualche giorno finirei sui giornali e avrei di sicuro una strigliata da parte della mia dirigente. E credo che pure gli studenti farebbero fatica a spiegare ai loro genitori che al tema d’italiano hanno preso “Coraggio” al posto di un 7.
Quindi non mi resta che tornare al punto di partenza.
Il voto, per me, è qualcosa che non riesco a capire fino in fondo e, tuttavia, nemmeno ci provo più di tanto a sforzarmi. Con chi ho di fronte, invece, è diverso. È lì che succede tutto: negli occhi degli studenti.
Mi basta guardarli seguire o non seguire una lezione per capire dove sto andando io.
Il loro essere svegli, spaventati, indecisi è il motore di quello che faccio. Non i voti.
A volte a scuola si piange, è vero, ma questo succede perché qui dentro si creano persone e le persone possono pure piangere, non c’è niente di male.
Credo di non avere una risposta ben precisa su cosa sia davvero un voto. Però credo di aver capito cos’è, per me, la scuola: è lo studente che ci pensa un attimo, poi si fa forza, e prova ad alzare la mano in classe.

 

di Andrea Martina

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